Dalmas, Sudafrica, 11 settembre 2024.
Visitare un Paese diverso dal proprio è come viaggiare dentro sé stessi.
Le aspettative incocciano con la realtà, a volte frantumandosi, altre miscelandosi con essa.
Pensando al Sudafrica è facile far volare il pensiero fino a piaghe sociali di recente dipartita; del resto, trent’anni dalla fine del segregazionismo non sono che un battito d’ali all’interno dell’Età Contemporanea.
Ma la nazione degli springbok non si può e non si deve ridurre alla sola lotta per l’uguaglianza etnica e sociale (ancora non raggiunta, per inciso), perché sarebbe ingiusto o quantomeno miope.
E allora i background personali ci suggeriscono figure, luoghi e situazioni differenti.
Dalle meraviglie naturali di parchi nazionali e deserti a storie incredibili come quella del “musicista-fantasma” Sixto Rodriguez, cantautore di Detroit diventato a sua insaputa simbolo di speranza per un Paese intero. Nelle orecchie possono risuonare Pata Pata di Miriam Makeba o le bizzarrie musicali dei Die Antwoord, trio di Cape Town che mischia rap/Hip-hop/dance/elettronica/rave facendo controcultura in maniera pienamente rappresentativa del meltin’ pot etnico-culturale sudafricano.
I più nerd di noi apriranno il link mentale che conduce ai natali di J.R.R. Tolkien – cittadino britannico, ma nato in quella Blomfontein che è la capitale giudiziaria del Sudafrica – o a una delle più talentuose attrici del panorama contemporaneo, la divina Charlize Theron.
Ma, come detto, queste restano icone, miti, cartoline colorate che affollavano la nostra mente fino al nostro arrivo nel Paese, solo qualche giorno fa.
Lì la realtà si è frantumata con le nostre aspettative, per poi miscelarsi con esse.
Abbiamo visto le baracche, distese di lamiere contorte che si affacciano sui quartieri fancy cintati e coperti di filo spinato attraversato da elettricità. Luoghi dove l’apartheid si è ribaltato e la forbice sociale si è allargata quasi fino a spaccarsi.
In appena tre giorni abbiamo visto la proverbiale gentilezza africana, l’accoglienza di chi apre il cuore al visitatore, orgoglioso di mostrargli la terra che è la patria comune di tutti noi, figli di avi che qui mossero i primi passi 300.000 anni fa.
Lavorando ai box su Emilia 5 ci siamo persi in tramonti dai colori cangianti, apparentemente infiniti. Come se in un singolo Sole che va a dormire ci possano essere gradazioni di rosso-arancio ancora sconosciute all’essere umano.
Abbiamo visto i sorrisi disarmanti di bambini e bambine che sembravano non credere alle parole “auto solare”.
E allora il Sudafrica diventa luogo di ombre solari, contrasti che ben si conciliano con la nostra presenza qui e con gli ideali insiti nelle gare di auto mangia-fotoni. Manifestazioni dove – paradosso – la maggioranza delle vetture che circolano sono a motore endotermico. Competizioni che ancora hanno la necessità di dimostrare la fattibilità di una mobilità sostenibile, realtà fattuale che si auto-sostanzia da anni sotto diverse forme tecnologiche. Tutte meno convenienti dello sciroppo di dinosauro che infiliamo nel serbatoio al distributore, però.
E allora noi lavoriamo. Come sempre. Ci sforziamo, compiamo sacrifici, viaggiamo.
Ci divertiamo, scherziamo tra una laminazione, uno spurgo di freni e uno studio aerodinamico.
In gara parliamo con i membri degli altri team, partecipiamo a scrutineering e prove in pista. Facciamo correre Emilia, arrivata ormai al suffisso “5”, facendoci guidare dal Sole fino al termine del giorno, sotto gli astri del firmamento sudafricano.
E chissà che tra qualche giorno, nel deserto, non possano brillare tanto quanto il loro fratello che alimenta l’incedere della nostra ragazza su ruote.
In quel caso ve lo racconteremo, non temete.
Immenso
Grande!!!!! Grandi!!!!!
Grazie per le emozioni che mi ha trasmesso.